L’Elisir d’amore alla Scala. Un commento

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Come ho già scritto in questo blog, commentando la ripresa televisiva di una rappresentazione allo Sferisterio di Macerata, non ho una particolare simpatia per questa opera, che non mi crea emozioni, non mi stimola riflessioni e si limita a trasmettermi un piacevole senso di divertimento e un discreto esempio di bel canto (cosa che apprezzo fin lì).

Tuttavia devo ripetermi ancora una volta. Un conto è vedere un’opera trasmessa per TV, un conto è assistere a all’opera in teatro. Le due cose non solo non sono sovrapponibili, ma cercare di fare confronti fra le due esperienze è, secondo me un grave errore. Un conto è guardare un’opera da soli, in poltrona, con lo schermo televisivo che inquadra parti della scena, spesso mettendo in primo piano le espressioni dei cantanti, un po’ come i registi cinematografici inquadrano i primi piani degli attori (ma quale differenza!!), con i diffusori acustici che ci trasmettono un suono manipolato da microfoni, distanze,  equalizzazioni e vari strumenti elettronici, etc. Un conto è invece guardare un’opera assieme a un pubblico del quale si avverte la presenza e che si scatena in applausi o grida di dissenso; guardare una scena con i movimenti dei cantanti e delle masse sulla scena, le luci studiate apposta per accentuare la tridimensionalità e la profondità dello spazio; ascoltare la voce che attraversa il velo rappresentato dal suono dell’orchestra e che giunge più o meno inalterata alle orecchie e al cervello. Fare paragoni fra i due approcci per esprimere un giudizio sulla rappresentazione, non ha senso; fare paragoni per dire quale due esperienze è la migliore, quella che penetra di più sotto la pelle, secondo me non ci sono dubbi: quella teatrale, che poi considero quella “vera”.

Ecco, ho fatto questa premessa per dire che le sensazioni che ho provato lunedì sera alla Scala non sono certo quelle che avevo provato la sera dell’agosto del 2006 guardando la trasmissione televisiva della rappresentazione maceratese. E la riprova l’ho avuta, ancora una volta, quando, al mio ritorno dalla Scala, a notte fonda, ho registrato dalla TV 3SAT una rappresentazione dell’opera fatta a Vienna nel 2005, interpretata da Villazon e dalla Netrebko, la mitica coppia che ha fatto scrivere fiumi di articoli su tutti i giornali del mondo.

 

Allora, l’opera. Non credo che ci sia molto da dire. Una trama semplice, a lieto fine come si conviene a una commedia leggera, accompagnata da una musica piacevole, delicata come l’opera che illustra, ricca di cori, e con arie e brani d’assieme che trasportano il pubblico senza costringerlo a eccessivi pensamenti. Il triangolo classico (soprano, tenore, baritono) è arricchito dalla presenza di un basso buffo che, come in ogni commedia che si rispetti, svolge un ruolo determinante per lo scioglimento dell’intrigo. Una cosa che mi pare degna di menzione, è il fatto che nelle rappresentazioni di quest’opera si ricorre, in diverse occasioni, a una coppia di cantanti di particolare notorietà. In questo decennio, come ho detto, ha suscitato molto interesse la coppia Netrebko-Villazon; nel decennio precedente l’interesse è stato attratto dalla coppia Alagna-Georghiu (all’Opera di Lione, 1996) o dalla coppia La Scola-Ciofi (alla Scala, 1998). Sarò maligno, ma a me sembra che, visto lo scarso spessore dell’opera, i produttori si impegnino alla ricerca di una perfezione esecutiva, per offrire uno spettacolo che attiri la maggior quantità di pubblico possibile. E, credo anche che con la coppia Rolando Villazon-Nino Machaidze in questa stagione scaligera, la dirigenza del teatro sia riuscita ad attirare il pubblico delle grandi occasioni.

 

La rappresentazione: Credo di non sbagliare se dico che l’attesa maggiore del pubblico che affollava il teatro era per Villazon. Mi pare che questo tenore non abbia mai cantato alla Scala, almeno in un’opera. E, vista la fama di cui è circondato, mi sembra logico pensare che questo fosse l’interesse principale. Ed è anche logico che io cominci a parlare della rappresentazione proprio dalla sua prestazione. Forse sono influenzato dal fatto che so che è stato recentemente operato alle corde vocali, tuttavia ho avuto l’impressione che la voce fosse tenuta a freno: se non deteriorata, direi che mi è parsa alquanto appiattita, priva di slancio. Già nella prima cavatina, “Quanto è bella” ho avuto la sensazione di una voce trattenuta. La cosa si è poi protratta successivamente. Tuttavia, nell’ultima romanza “Una furtiva lacrima”, veramente Villazon ha saputo trasmettere tutta la forza, l’energia, l’entusiasmo che da questa aria ci si aspetta. Ho pensato allora che il tenore abbia evitato di forzare la voce nel corso dell’opera per dare libero sfogo in quella che è il momento più atteso e più amato dal pubblico. Nelle sue condizioni, atteggiamenti di prudenza sono ampiamente comprensibili.

Notevole nel corso di tutta l’opera è stata la sua presenza scenica. Normalmente il personaggio di Nemorino viene interpretato come quello di un tontolone, lamentoso la sua parte, credulone, sostanzialmente privo di personalità. Villazon ne fa un personaggio sostanzialmente diverso, innamorato sì, ma tutt’altro che passivamente irretito da Adina, con atteggiamenti ribellistici che sfiorano la comicità se non la vera e propria farsa.

La sua controparte, la sera della rappresentazione cui ho assistito, non era Nino Machaidze, ma Irina Lungu, soprano moldavo che, si legge, proviene dalla scuola della Scala ed è allieva della Gencer. Ella ha tenuto ben testa alla performance del tenore dando vita a un personaggio cui non è mancata la vivacità del caso. La voce mi è sembrata bella, sufficientemente agile nei brani di coloratura (soprattutto nel duetto finale con Villazon), leggera nel duetto dell’aura lusinghiera. Però devo dire una cosa: forse sarò un po’ prevenuto, ma le voci di queste soprano dell’Europa orientale, pur belle, limpide, mi sembra che sul palcoscenico non manifestino una grande personalità. Ben altra cosa mi pare di sentire nella Devia e nella Ciofi, tanto per citare due soprano italiane che ho sentito abbastanza recentemente.

Il Belcore di Gabriele Viviani ha dato anch’egli una veste caricaturale al personaggio, con scivoloni, cadute, etc. La voce mi è parsa senza infamia e senza particolari lodi. Il Dulcamara di Maestri non ha portato nulla di novo al personaggio: la sua voce è potente, ma il canto e la recitazione sono stati quanto di più tradizionale si possa immaginare, addirittura li si potrebbero definire abbastanza spenti.

Ora credo che valga la pena di spendere qualche parola sulla regia di Laurent Pelly. Si tratta di una regia già sperimentata all’Opera di Parigi nel 2006, e riproposta in questa rappresentazione. È abbastanza tradizionale e aderente ai dettami del libretto. Il quadro di base è quello di una campagna indaffarata, dove la vita dei campi si trasmette oltre che nel lavoro, anche nell’allegria delle situazioni. Le scene sono belle, a colori vivaci. La prima scena è rappresentata da una montagna di balle di paglia che occupa il centro del palcoscenico. Adina a metà altezza, sdraiata su una specie di materasso all’ombra di un ombrellone, legge il libro di Tristano e si dà lo smalto sulle unghie dei piedi. Nemorino, salta qua e là per la montagna, mentre il coro invade la scena in modo ampiamente variopinto come costumi e come movimenti. L’atto viene interrotto per un cambiamento di scena prima dell’arrivo di Dulcamara. La nuova scena mostra una specie di incrocio stradale con al lato l’osteria della Pernice. A questo incrocio arriva una specie di Tir-camper, che si apre lateralmente e lascia vedere una specie di laboratorio abitazione di Dulcamara. Quest’ultimo esce indossando un vistoso camice bianco, aiutato da alcuni mimi, e canta la sua cavatina buffa, senza particolare originalità. L’ultima scena, che occupa tutto il secondo atto, ripropone le balle di paglia accatastate ai due lati del palcoscenico e al centro un ripiano appena sopraelevato dove si dovrebbe svolgere il banchetto di nozze. I colori sono vivaci (Dulcamara indossa un abito rosso vivo) e ben si adattano al clima dell’opera. I movimenti dei cantanti e delle masse fanno risuonare la vivacità dell’azione: solo nell’aria della furtiva lacrima le luci si attenuano per creare un’atmosfera notturna e un clima appena accennato di pathos. Insomma la regia è stata molto gradita dal pubblico.

La direzione orchestrale di Donato Renzetti ha condotto lo spettacolo in modo che tutto si accordasse e si realizzasse con l’equilibrio che opere di questo tenore richiedono.

Applausi finali entusiasti, e conclusione di piacevole divertimento da parte mia.

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