CI RAGIONO E CANTO di Dario Fo, 1966

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Si tratta uno spettacolo nel quale vengono messe in scena una serie di canzoni popolari, riguardanti il lavoro, la guerra, e ogni occupazione umana nella quale fatica, rischi, lotte hanno un ruolo. Ovviamente non c’è una trama. Lo spettacolo offre una serie di quadri che hanno un rapporto visivo con le canzoni. Per esempio già all’inizio, una bella canzone, Le dodici parole della verità, viene cantata in processione su un palcoscenico in penombra. Il canto ha un ritmo molto dolce, lento, e le parole ci parlano del mondo, della luna delle stelle e di tutte le cose che ci circondano in questo mondo, ma ribadisce che la prima cosa, quella da cui tutto procede è Dio (nos car Signur). La canzone è cantata in dialetto Torinese, ed è di origine bretone.

Così seguono le altre canzoni: ci sono sei cantanti di sesso femminile, cinque di sesso maschile e quattro cantanti sardi (Coro di Aggius) di cui uno è voce solista (Salvatore Stangoni) e gli altri tre armonizzano. Il palcoscenico è sempre lo stesso, i costumi sono simili, gonne lunghe, corsetti e scialli neri per le donne, calzoni camice e gilè per gli uomini, tutti di diverse sfumature di colore. I quattro cantori sardi portano un mantello nero.
All’inizio le donne cantano da sedute, con le loro grandi chitarre; la solista, sempre diversa, si alza e canta a sua volta. Gli uomini tengono in mano dei bastoni, che volta volta sono delle zappe, dei badili, o altri attrezzi di lavoro e li scuotono o li sollevano o li battono a terra mimando il lavoro che ha dato origine alla canzone. Fo, all’inizio della rappresentazione, ci avverte: le canzoni popolari, soprattutto quelle nate sul lavoro, scandiscono un ritmo che è lo stesso necessario per compiere i movimenti che il lavoro richiede.
Naturalmente è impossibile riassumere le diverse canzoni che vengono presentate. Vi sono ninne nanne, canzoni di gioia vitale (O Signur di puveritt), molte in dialetto, altre in un italiano sgrammaticato ma efficacissimo. Spesso il dialetto, soprattutto quello dei canti delle regioni settentrionali, è per me abbastanza comprensibile, mentre del tutto incomprensibile sono le canzoni i dialetto sardo (per esempio Tibi o il canto di vendemmia Curaggiu, bibinnaduri) o siciliano. Nel DVD che Fo ha pubblicato, comunque, le canzoni in dialetto, presentano sottotitolature in lingua italiana.
Che genere di canzoni. La maggioranza sono canzoni che si riferiscono al lavoro contadino (come la sloica del delta padano A lavorar gh’andem prima matina oppure il canto laziale So stato a lavorà a Montesicuro o ancora una canzone di Dario Fo Poca terra). Altre sono lamenti di ragazzi che vanno alla guerra (Lu suldate che va a la guerre filatrocca di Teramo oppure Fuoco e mitragliatrici), o canti degli emigranti (Iu partu e su custrittu di partiri) o ninnenanne per i piccoli che devono addormentarsi (Nana bobò, raccolta a Chioggia oppure Ninna nanna a sette e venti, melodia mugellana), o canti di protesta (E mi son chí in filanda oppure Se otto ore vi sembran poche) o che immaginano le lotte fra i potenti che sono poi lotte per poterli sfruttare meglio (È fatalità).
Altre sono canzoni di lotta: soprattutto di lotta sindacale, ma anche di lotta politica, e spesso in quelle canzoni sventola la bandiera rossa (Bandiera rossa del partigiano, di Dario Fo), la bandiera della riscossa dei lavoratori sfruttati. Altre sono canzoni d’amore (Mi s’eri ammo’ giúvina), di innamorati costretti a lasciarsi perché lui deve andare alla guerra; altre canzoni di militari che sono stati puniti per scarso impegno combattivo (O cancellier che tieni la penna in mano, canto polesano), altre di carcerati che descrivono la propria cella (La mia cella, da una lettera di un condannato a morte e fucilato a Roma); mamme che piangono il figlio morto in combattimento (Figghiu sciatu meu, lamento funebre siciliano e Mare maje, antico testo funebre)
Altre sono canzoni di guerra, di soldati al fronte (La tradotta che parte per Novara, canto della prima guerra mondiale), del disagio di montagne impervie (Sulle montagne fa molto freddo), di monti innevati, di giorni interminabili, di ferite ricevute (Eravamo in quindici).
Tutte queste canzoni a volte sono tristissime, quando si riferiscono a grandi disgrazie, a volte sono allegre, soprattutto quelle di lotta contro lo sfruttamento, altre sono gioiose quando pur nel duro della guerra ci si sente gli amici vicini e si può far festa (Sun cuntent de vess al mund). Ma quello che c’è da notare che il clima delle canzoni non è mai unico: spesso le canzoni disperate hanno un fondo di speranza che ne attenua il dolore; altre volte le canzoni gioiose conservano nel loro intimo una forma di malinconia che non abbandona mai chi si sente sfruttato.
Canzoni al femminile si alternano a canzoni dei maschi, mentre ogni tanto i quattro cantori sardi si fanno avanti per cantare canzoni della loro terra.
La rappresentazione è in due atti.
Il secondo atto è introdotto da una divertente canzone di Dario Fo: Ho visto un re, cantata dai cinque uomini. Il re è triste perché l’imperatore gli ha portato via il suo castello; il vescovo è triste perché il cardinale gli ha portato via l’abazia; il ricco è triste perché re, imperatore, vescovo e cardinale gli hanno portato via le sue case; il contadino è invece allegro: re, imperatore, vescovo e cardinale e il ricco gli hanno portato via un pollo, la moglie, un cascinale e anche il maiale. Ma lui è allegro, perché se piangesse farebbe star male re, imperatore, vescovo e cardinale e ricco.
Poi la donne con cesti pieni di biancheria, iniziano a compiere il loro lavoro di lavandaie, mentre gli uomini le assistono. Questa volta sono soprattutto le canzoni d’amore che prevalgono: fanciulle che vogliono sposarsi, come Mama mia vurìa vurìa (canzone di Asti), oppure Mamma mamma mi sento un gran male (canzone toscana) o La bella la va al fosso (Canzone padana). Ci sono addirittura canzoni che risalgono al medio-evo come lo Stabat Mater di Jacopone da Todi.
Il finale è una canzone collettiva, Non aspettar San Giorgio. Tutto lo spettacolo ha il merito di richiamare vecchi climi che le canzoni popolari rievocano e che, giustamente, anche se ora il clima è molto cambiato (non si sa se in meglio o in peggio), è un dovere e anche un piacere farlo rivivere nelle nostra memoria.

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