La mia esperienza in un catecumenato

Su invito di un amico ho deciso di frequentare un percorso di conoscenza e approfondimento di temi religiosi promosso da una comunità persone di fede cristiana cattolica.
Questo percorso viene definito “catecumenato” in quanto si richiama al costume delle comunità cristiane, prima dell’editto di Costantino, di far precedere l’ingresso di un nuovo credente nella comunità ecclesiale da un percorso informativo e formativo solo al termine del quale veniva compiuto il rito sacramentale del battesimo.

Essendo al corrente del fatto che io non sono credente, diverse persone si sono chieste, e mi hanno chiesto, le ragioni di questa mia frequentazione. Le ragioni derivano dal mio interesse a conoscere il modo in cui persone responsabili vivono i contenuti e i dettami della fede, e quindi cercare di capire meglio il rapporto fra legge morale e fede.

Gli incontri sono iniziati a metà gennaio, sono proseguiti e ritmo bisettimanale e si sono conclusi con una convivenza della durata di due giorni il 9 marzo.

Il tema introdotto come fondamentale è la consapevolezza dell’amore di Dio. L’espressione più alta dell’amore che Dio ha per l’uomo è stata quella di fare incarnare il proprio figlio, che, assumendosi sulle proprie spalle i peccati dell’uomo, si è immolato sulla croce e quindi risuscitato, in tal modo sconfiggendo la morte rappresentata dal peccato.
L’amore di Dio è sempre presente ed è rivolto a tutti, giusti e peccatori. Per sentirlo, bisogna accoglierlo.

La sacra scrittura descrivendoci le vicende della storia del popolo ebraico e i suoi rapporti con Dio, ci configura in ogni momento la natura del rapporto dell’uomo con la divinità. Abramo ha ricevuto il figlio che desiderava e la terra promessa perché, pur essendo politeista e quindi non conoscendo Dio, ne ha avvertito la voce e ne ha seguito l’invito; Mosè, sempre accogliendo l’invito e le promesse di Dio ha portato il suo popolo alla libertà; Dio ha punito il popolo di Israele quando, nel deserto ha diffidato di lui. Analogamente l’affidarsi a Dio o l’allontanarsi da lui con diffidenza nella vita quotidiana, ci premia o ci punisce. La microstoria di ciascuno di noi trova specchio e proiezione nella macrostoria descritta nella Sacra Scrittura.

Dato che Dio ama l’uomo, l’uomo deve amare Dio con tutto il suo cuore, con tutto il suo spirito e con tutte le sue forze; e, essendo fatto a sua immagine, deve amare il prossimo suo. L’amore verso il prossimo deve essere totalizzante, come lo è quello di Dio, che ha mandato il proprio figlio a sacrificarsi sulla croce (amore nella dimensione della croce). L’amore per il prossimo in queste dimensioni tuttavia non appartiene alla natura dell’uomo e può essere realizzato solo con l’aiuto di Dio (ad esempio l’amore per il nemico che ti ferisce, etc.)

La fede si basa sostanzialmente su un tripode: la parola, la liturgia, la comunità. La Parola è la parola di Dio, quale ci consegnano le sacre scritture, certamente, ma è anche lo stesso Dio e lo stesso suo figlio attraverso i loro insegnamenti che le Sacre Scritture trasmettono; la liturgia è l’insieme di atti che rappresentano il memoriale, cioè la riproduzione quotidiana, concreta, vivente nell’uomo, dell’espressione dell’amore di Dio fino al sacrificio del figlio sulla Croce; la comunità è la possibilità di ricevere l’amore di Dio come condivisione, e non come atto isolato e quindi egoistico. La comunità maggiore è la Chiesa, al cui interno ogni uomo trova gli strumenti che lo mettono in condizione di accettare l’amore di Dio e farsene partecipe.

Assieme a questi insegnamenti di base, le catechesi hanno approfondito molti degli aspetti della Parola (la parola, come tale, dai libri sacri, deve essere proclamata, e non letta silenziosamente: qui si comprende ad esempio come la parola, la liturgia e la comunità formino un vero tripode): nell’ultima catechesi è stato proclamato il discorso della Montagna, riportato in Matteo, i cui contenuti non devono essere intesi come leggi (la Legge è sempre quella consegnata da Dio a Mosè), ma come inviti a comportamento che realizzi il vero amore per il prossimo e quindi la via della salvezza. Far propri i contenuti del discorso della Montagna è possibile solo se si richiede e si accetta l’aiuto di Dio.
Le catechesi hanno approfondito aspetti della liturgia, soprattutto dell’Eucaristia, che è il momento in cui viviamo in noi stessi (memoriale) la cena della Pasqua in cui Cristo ha offerto il suo corpo e il suo sangue nelle vesti del pane e del vino per la liberazione dell’uomo dal peccato (memoriale a sua volta della liberazione degli Ebrei dalla schiavitù) e ha parlato della nuova alleanza.
E infine gli aspetti della comunità sono culminati nei due giorni di convivenza, nei quali le catechesi hanno assunto un aspetto più legato ai fattori della vita quotidiana.

Nel corso delle catechesi, vi sono state due celebrazioni: una penitenziale, basata sulla confessione e sulla penitenza; una eucaristica, basata sul memoriale della messa e la comunione. In entrambe le celebrazioni vi è stata la proclamazione della parola di Dio, la parte liturgica vera e propria e la parte finale come agape, nella quale veniva festeggiata in comunità la celebrazione.

Riflessioni che mi sono state suggerite da questo lungo e approfondito incontro.

Ho premesso che le riflessioni non mi sono state suggerite dai contenuti delle catechesi: io non sono credente e quindi non ho gli strumenti per entrare nella discussione che riguarda la natura del rapporto dell’uomo con Dio. Anzi, spero che nell’esporre brevemente il loro contenuto non abbia commesso imprecisioni o peggio ancora errori.
Mi ha interessato moltissimo invece conoscere il modo in cui persone responsabili vivono i contenuti e i dettami della fede, e quindi cercare di capire meglio il rapporto fra legge morale (imperativo categorico?) e fede.

Vi sono aspetti che ho ritenuto positivi e aspetti che ho ritenuto negativi.
Fra gli aspetti positivi devo mettere in primo piano l’invito a vivere la fede in comunità. Il parlarsi reciproco, la ricerca fatta in comune, l’esperienza degli incontri con Dio comunicati agli altri, insomma tutto ciò che tende a valorizzare il prossimo come parte di sé da accogliere e non come altro da rifuggire è un valore che nella società attuale si sta sempre più perdendo, e il cui ricupero, secondo me è fondamentale se si vuole aprire a quella che Kant definisce la legge morale dentro di noi. Oggi la società, attraverso la televisione, attraverso gli strumenti di riproduzione musicale, attraversi i giochi elettronici, anche attraverso l’uso distorto e paranoide del computer, come anche attraverso mezzi di comunicazione sempre più rapidi, o attraverso una cultura che esalta l’egoismo, tende allontanare gli uomini gli uni dagli altri, ad isolarli, e quindi a far crescere in misura sempre maggiore la diffidenza verso l’altro, e addirittura la repulsione verso il diverso. Il risultato è che quando si formano le comunità, troppo spesso esse si costruiscono su progetti di violenza, come già avviene largamente nel mondo dei tifosi del calcio, ma ormai anche in molte altre aree della società. O in alternativa, anche laddove manchi la violenza fisica, si formano comunità cementate da condivisione di ideologie integraliste che tendono ad isolarsi e rifiutare tutti coloro che la pensano in modo differente.

Un secondo aspetto positivo mi è sembrato il fatto che il rapporto fra Dio e l’uomo è l’unico autentico rapporto oggetto della fede. In pratica non si è mai parlato del ruolo dei Santi come oggetto di devozione; e ugualmente non si è mai parlato della Madonna, se non come la madre di Cristo, che si è sottomessa all’annunciazione (così come Abramo ha accettato gli inviti di Dio) proveniente da Dio, e che ha vissuto l’immenso dolore di madre nel momento del sacrificio di Cristo, e che è rimasta sola ai piedi della croce a piangere il figlio, mentre tutti gli altri, apostoli compresi, avevano abbandonato il campo. Ma non si è mai fatto cenno alla possibilità-necessità di pregare la Madonna, e men che meno i Santi, come intercessori per ottenere la grazia da Dio. Il rapporto fra uomo e Dio è diretto e unico, e non è mediabile da nulla se non dalla propria volontà di abbandonarvisi.
Analogamente non si è mai parlato dei miracoli come prova di santità. Gli unici miracoli di cui si è parlato sono quelli di Cristo, non tanto e non solo come prove della sua divinità, ma soprattutto come strumenti di rafforzamento della sua predicazione e del suo insegnamento.

Infine l’aspetto positivo riguarda la valorizzazione del discorso della Montagna. Il discorso della Montagna, nella mia interpretazione, è il punto di riferimento di tutto l’insegnamento di Cristo, poi ampliato e testimoniato dalla predicazione evangelica.
Il discorso della Montagna non sostituisce la Legge, che rimane quella che è; ma la completa (dice Gesù). Ovvero tutto il discorso attraverso numerosissimi ammaestramenti, tende nella sostanza ad far emergere nell’uomo la legge morale che ha dentro di sé, storicamente oscurata da una cultura di violenza, di discriminazione che aveva nell’accettazione dello schiavismo come fatto “naturale” il nucleo più significativo. Di qui l’importanza storica del Discorso che rappresenta un punto di svolta nella storia dell’umanità.

Gli aspetti di riflessione negativa derivano soprattutto dalla definizione dell’uomo come essere sostanzialmente debole e incapace di fare il bene, che pure vorrebbe fare, senza l’aiuto di Dio. Ciò sta ad indicare che l’aspetto che io ritengo più importante dell’essere uomo, la legge morale che è dentro di lui, è insufficiente di per sé a perseguire il bene. Io non posso condividere questa posizione. Anche se è ammissibile che in generale il comportamento dell’uomo, quale lo si verifica nell’esperienza quotidiana, raramente è immune da un egoismo di fondo, e anche nelle situazioni più favorevoli, laddove si sia costretti a fare una scelta fra bene e male, il male esercita un’attrazione (vedi le tentazioni di Cristo nel deserto da parte del demonio) per sfuggire alla quale è necessario effettuare uno sforzo. Tuttavia io ritengo che questo sforzo può essere esercitato a partire dalle proprie convinzioni laddove la conoscenza della legge morale sia ben chiara e convinta. Nella storia così come nella vita quotidiana vi sono numerosi esempi di questo genere, giunti fino al sacrificio personale in persone non sempre credenti in Dio. Ma anche al di là degli atti di eroismo, l’esperienza quotidiana ci dice che la scelta fra il bene e il male può essere frequentemente risolta a favore del bene. E io credo che sia giustificato l’orgoglio nell’uomo di poter fare il bene attraverso il riconoscimento della legge morale che è in sé, senza ricorrere a mediazioni o aiuti esterni.

Il secondi punto di riflessione negativa è l’esistenza del concetto di “peccato”. L’uso del termine “peccato” presuppone un atto giudicato non in base al giudizio soggettivo di chi lo commette (bene o male), e neppure in base alle conseguenze (positive o negative) che l’atto ha nei confronti del prossimo. Il concetto di “peccato” tende a dare valore all’atto in sé.
Certamente, in linea di massima, è condivisibile che la violazione della Legge, cioè dei Comandamenti, sia un atto giudicabile come male. È del tutto ovvio però affermare che i Comandamenti rappresentano delle direttive, e non possono essere interpretati alla lettera. Ma, sia che essi siano d’origine divina, come sostengono i credenti, o che siano la traduzione in forma elementare della legge morale che è dentro l’uomo, la loro interpretazione non può sfuggire alla cultura dominante della società, e soprattutto alle due terminazioni fra le quali è collocato l’atto: l’intenzione di chi lo compie e lo conseguenze di chi lo subisce.
Tradurre tutto questo in una casistica nella quali i vari atti assumono un valore di bene o male in quanto tali mi sembra profondamente sbagliato. Si potrebbero fare alcuni esempi: fra tutti quello più grottesco riguarda il giudizio sul rapporto uomo donna e sul rapporto sessuale, condannato come male e quindi come “peccato” anche se è assente in chi lo commette la intenzione o la consapevolezza di far male e se manca il danno in chi lo riceve. Ma al di là di questo esempio il concetto di “peccato” viene attribuito anche ad altri atti senza che vi sia corrispondenza fra l’intenzione di fare del male e la conseguenza.
In sostanza anche sotto questo profilo sembra quasi che questo finisca per deresponsabilizzare l’uomo, delegando il tutto a un giudizio esterno, che dovrebbe essere di Dio, ma in sostanza si rivela essere della Chiesa, visto anche le oscillazioni che si osservano nella concezione stessa dell’atto da giudicare. Basti pensare al giudizio variabile che si dà al V° comandamento, non ammazzare: non solo ammazzare è lecito quando si tratti di legittima difesa (questo è ammesso anche dalla legge morale propria dell’uomo), ma quante volte la Chiesa ha benedetto o addirittura organizzato eserciti per fare guerre, quante volte ha ammesso o compiuto la pena di morte su persone giudicate ree; anche oggi la Chiesa non ha espresso un giudizio totalmente negativo sulla pena di morte, limitandosi ad una raccomandazione.

Questo è quanto mi è sembrato di stimolo alla riflessione in questi giorni di catecumenato, e il frutto delle mie riflessioni.

1 Commento a “La mia esperienza in un catecumenato”

  1. Mariella Canaletti scrive:

    Nulla da dire sul tuo commento, che in realtà condivido, sia per quanto riguarda il pessimismo agostiniano sulle capacità dell’uomo di scegliere il bene, sia anche per quanto riguarda il concetto di peccato. Il primo punto però è in qualche modo avvalorato dall’agire dell’uomo, che troppo spesso sceglieil male e lo rende così diffuso e diffusivo da rendere difficile la vita a sè e agli altri; per il peccato, giocano le cose di sempre: Paolo dice che dobbiamo abbandonare la Legge, ma la Chiesa, e tutte le Chiese organizzate, hanno bisogno di definire, e di avere anche il dominio delle coscienza. Così si fa un elenco di peccati, dimenticando che l’ultima sede è la coscienza (come dice anche il Vaticano II. Ma per fortuna Dio è più grande dell’uomo, fin dall’antichità (vede il cap. 11 del profeta Osea).
    Il candelabro degli Ebrei è, come ti dicevo, la menorah a 7 bracci, secondo le prescrizioni di Esodo. probabilmente non era un candelabro, non esistevano, ma lumi. L’altro non è così importante. M.

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