ASSASSINIO NELLA CATTEDRALE, alla Scala

 

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Sulla locandina dell’opera appare scritto in bella evidenza “In ricordo di Gianandrea Gavazzeni nel centenario della nascita”. Sì, perché Gavazzeni è stato il direttore della prima assoluta dell’opera alla Scala nel 1954, come mostra un fascicolo dedicato a lui e a Ildebrando Pizzetti allegato al volume di sala.

Come è noto, l’opera è tratta dall’omonimo lavoro teatrale di Thomas Stearns Eliot, scritto dal grande poeta angloamericano dopo la sua intensa conversione alla fede cristiana. La storia racconta l’epilogo dei rapporti intercorsi fra Enrico II d’Inghilterra e Thomas Becket: rapporti di amore e odio, stima e disprezzo, terminati con l’assassinio di quest’ultimo, qualche giorno dopo il Natale del 1170, proprio sui gradini dell’altare della cattedrale di Canterbury, della quale Becket era Arcivescovo, da parte di alcuni nobili che pensavano di interpretare il desiderio del loro re.

Il libretto è opera di Pizzetti: una riduzione, secondo me molto ben fatta, della traduzione italiana di Alberto Castelli. Viene conservata nella sostanza l’intensa spiritualità che contrappone da una parte l’esigenza di una fede svincolata dalle ragioni di stato e tesa soprattutto al riconoscimento della giustizia divina come vera giustizia, e dall’altra l’esaltazione della redenzione operata dal sacrificio di Cristo, contro le paure e le meschinità di un mondo del quotidiano che cerca solo il quieto vivere.

Drammaturgicamente l’opera si compone di due parti: la prima parte, che potremmo definire quella della ricerca della strada da parte di Becket; la seconda parte, definibile come la “strada trovata” e il supremo sacrificio. Le due parti ruotano su un perno, rappresentato dall’intermezzo, nel quale viene riportata la predica di Thomas Becket durante la messa di Natale del 1170, nella quale viene collegato il martirio di Cristo con il martirio di coloro che ne difendono il valore di redenzione e salvezza del genere umano.

La storia inglese di quel periodo è ben nota, ma forse vale la pena, per miglior comprensione dell’opera, di riprenderla in breve. Thomas Becket, di origini non nobili, persona di grande intelligenza e fedeltà, è stato scelto per lungo tempo come Cancelliere da Enrico II. Il suo servizio è stato considerato tanto soddisfacente da indurre il re a nominarlo Arcivescovo di Canterbury, la più alta autorità religiosa della Chiesa in Inghilterra, con il proposito di controllare meglio un mondo che sembrava sfuggire al proprio potere. Il calcolo di Enrico II si rivelò sbagliato. Thomas Becket, nel momento in cui assunse la carica di Arcivescovo, diede le dimissioni da Cancelliere e lavorò per rafforzare il potere della Chiesa, entrando in rotta di collisione con la volontà e il potere del sovrano. Il contrasto costrinse l’Arcivescovo a rifugiarsi in Francia, per ottenere l’appoggio del papa e del re francese. Dopo sette anni di tormentato esilio, Becket tornò in Inghilterra per svolgervi la propria missione.

Il libretto

Il lavoro teatrale di Eliot, e così l’opera di Ildebrando Pizzetti iniziano proprio col ritorno dall’esilio di Thomad Becket.  Lì, a Canterbury, è atteso: in parte da fedeli che finalmente sentono la presenza di una guida sicura; in parte da fedeli più pavidi che temono che il suo arrivo, senza che sia stato raggiunto un accordo col re, porti a un peggioramento delle condizioni cui già si sentono costretti a causa della loro fede. Il primo gruppo è rappresentato dai sacerdoti, il secondo dalle donne di Canterbury che, ci dicono, «per noi povere donne non c’è l’azione, solo v’è l’attendere e il testimoniare».

Thomas rientra fra la sua gente, ma subito viene assalito da quattro tentazioni  (richiamo esplicito alle tentazioni di Cristo nei quaranta giorni passati nel deserto): il primo tentatore gli ricorda la spensierata gioventù, i piaceri della carne; cose di un passato che non può più ritornare, risponde Thomas. Il secondo tentatore gli ricorda il potere datogli dal re con la carica di Cancelliere; non ha senso barattare il potere divino di condannare e assolvere il male e il bene, col potere temporale, fallace e subordinato, risponde ancora Thomas. Il terzo tentatore lo invita alla ribellione cruenta, che restituirebbe in un tempo il potere alla nobiltà e alla Chiesa, entrambi oppressi dalla monarchia; come ci si può fidare di chi ha in animo il tradimento, risponde Thomas. Egli non è un traditore, ma solo il difensore della Fede. Il quarto tentatore gli prospetta la gloria del martirio come il livello più alto di gloria terrena; questa è la tentazione più difficile da sconfiggere, ammette Thomas, perché riporta in vita il suo desiderio più riposto.

La via da seguire è quindi molto difficile. Verrà trovata da Becket proprio nella predica durante la messa di Natale, davanti al martirio di Cristo, celebrato proprio il giorno della Sua nascita: «Un martirio cristiano non è un caso, né mai disegno è d’uomo. Vero martire è quel che non desidera più nulla per sé, neppur la gloria del martirio: è quello che strumento è divenuto di Dio, che nella volontà di Dio, nella sottomissione a Dio soltanto ha trovato la vera libertà».»

Il secondo atto sarà quello del martirio. È il 29 dicembre. I quattro cavalieri prima accuseranno l’Arcivescovo di tradimento, rinfacciandogli le tresche che avrebbe provocato durante l’esilio francese ai danni del re. Poi gli rinfacciano l’origine non nobile e i favori ricevuti; infine gli impongono di andarsene dall’Inghilterra dove non è più bene accetto. Becket si difende. Non ha mai tradito il re, ne è sempre stato un suddito fedele. L’unico limite è il suo stato, di garante della libertà della Fede. I cavalieri sono adirati. Non mollano la presa. Escono, ma per tornare poco dopo armati. L’Arcivescovo è nella cattedrale, davanti all’altare. Invano i monaci vogliono tener chiuse le porte per impedire l’ingresso ai malintenzionati. L’Arcivescovo non vuole. «Non voglio che il Santuario del Signore sia mutato in fortezza. Anche ai nemici deve essere la chiesa aperta, sempre». Così i cavalieri entrano e, sguainate le spade, uccidono Thomas Becket sui gradini dell’altare. Il martirio si è compiuto. I cavalieri si rivolgono al pubblico e giustificano il loro atto. Non hanno ricevuto l’incarico da nessuno; non hanno fatto questo per un interesse personale. Anzi, il re sarà molto irritato per questo assassinio, e loro dovranno fuggire in esilio, per evitare la inevitabile punizione. Ma, concludono: l’Arcivescovo avrebbe potuto salvarsi con qualche accorgimento, per esempio non aprendo le porte. Come considerare allora la sua morte se non il suicidio di un infermo di mente? Perché Thomas Becket era ed è un grande uomo.

Il coro dei fedeli conclude la tragedia con un canto di ringraziamento: il martirio dell’uomo, come il martirio di Cristo è la redenzione dal peccato del mondo: «il sangue dei Martiri e dei Santi è sulla nostra testa».

La musica.

Si dice che nell’opera ci siano tre protagonisti: Thomas Becket, l’Arcivescovo, interpretato da un basso, il coro, e l’orchestra. Tutta la vicenda gira attorno al declamato di Thomas, nel quale il prelato esprime le sue riflessioni, respinge le tentazioni, nega l’infedeltà al re, invita i fedeli a aver fede e a considerare il martirio come il punto più alto della redenzione, a partire da quello di Cristo. Si tratta di un declamato intenso, estremamente espressivo, senza arie o romanze o ariosi di varia natura. In alternativa a Thomas, vi sono gruppi di personaggi (tutti privi di un nome che li identifichi) che intervengono in appoggio o in opposizione: i quattro tentatori; tre sacerdoti; quattro cavalieri; due corifee e, in modo determinante, il coro, soprattutto il coro femminile, le donne di Canterbury, ma anche quello maschile, i sacerdoti della cattedrale, e, nel secondo atto, anche un breve coro di voci infantili. L’orchestra ha un ruolo straordinario. All’inizio dei due atti, e all’inizio e alla fine della predica nell’intermezzo, vi sono brevi interludi orchestrali di grande bellezza. Le melodie, affidate a timbri e colori molto vivaci (i legni, il corno inglese soprattutto) si distendono secondo una sensibilità modale, senza vere e proprie dissonanze, ma anche senza centri tonali. Compito dell’orchestra è anche quello di sottolineare emotivamente sia il declamato di Becket che gli interventi del coro e dei personaggi. Il discorso timbrico sembra essere continuamente sospeso per esprimere un stato d’animo di un momento o di un gruppo di personaggi: un flusso musicale che segue e commenta il flusso dei sentimenti che, in una situazione di frenetica attesa come quella descritta, non trova mai un elemento conclusivo, o una sosta, o anche solo un punto di appoggio. Anche la musica del coro segue un andamento modale, se non addirittura gregoriano (sia pure accompagnato dall’orchestra), come avviene nel secondo atto nel Dies Irae, mentre il coro delle donne canta il proprio orrore nell’attesa di un martirio che sembra inevitabile. Sempre in una logica di intensa espressività è il canto dei gruppi di personaggi. Per esempio, il canto dei tentatori nel primo atto assume un carattere che esprime il tipo di tentazione: di valzer allegro, quello del primo, accompagnato dai timbri acuti dei legni; di solennità accompagnato soprattutto dai timbri squillanti degli ottoni quello del secondo; di timbri misteriosi quelli del terzo e del quarto tentatore. L’ingresso dei cavalieri, nel secondo atto è annunciato con violenza percussiva; essi cantano singolarmente, ma le loro voci tendono immediatamente a sovrapporsi, spesso in ripetizione sfasata delle stesse parole o espressioni. Questo contribuisce a dare un tono di aggressività e inconciliabilità alla loro ira che arriverà alla fine all’assassinio.

In complesso il quadro generale che ne risulta è quello di un evento straordinario, che solo l’espressione di una fede assoluta, di un desiderio intenso di ascesa verso il divino, possono rievocare.

Una considerazione mi sembra di poter fare. Pizzetti appartiene alla cosiddetta generazione dell’Ottanta, che comprende anche Malipiero, Casella, Respighi, e Alfano. Si tratta di un gruppo di compositori che mi sembra legittimo definire sfortunati. La loro produzione è avvenuta in gran parte sotto il fascismo. In primo luogo ciò ha condizionato un loro isolamento da quelle che, più o meno nello stesso periodo, sono state le grandi correnti della cultura musicale (e non solo musicale) europea: si pensi a Debussy, Ravel, Stravinsky, Schönberg, Britten, Janacek, etc. Si pensi alla ricerca di nuove espressioni musicali come l’atonalità, la politonalità, la dodecafonia. La ricerca dei compositori della generazione dell’Ottanta si è sviluppata soprattutto nelle espressioni dell’arte musicale medioevale, (la modalità soprattutto) che, nell’orbita europea, sono state considerate marginali e secondarie. In secondo luogo, lo stesso fatto di essere stati compositori etichettati come fascisti, ne ha condizionato, nel dopoguerra, una forma di oblio precoce e duraturo.

La visione dell’Assassinio nella cattedrale, l’intensità del suo messaggio, religioso-drammaturgico e musicale, mi induce a pensare che, forse, nella produzione di questi compositori, vi siano aspetti che andrebbero rivalutati e riproposti.

Anzi, si potrebbe aggiungere che La Scala, in queste settimane, proponendo tre opere pressoché contemporanee, databili negli anni Cinquanta, ovvero La Carriera di un libertino, Assassinio nella cattedrale, e Sogno di una notte di mezza estate, ha reso possibile constatare di persona le diversità del comporre musica che hanno dominato Europa nella prima metà del secolo.

Mi spiace di essere stato molto lungo e prolisso nel parlare dell’opera come tale, mentre forse avrei dovuto dare più spazio alla produzione da me vista lunedì sera. Ma l’aver visto questa opera mi è sembrata un’occasione irripetibile per scendere in aspetti sui quali riflettere, farsi domande e cercare risposte.

Ma qualche cosa si dovrà dire dell’esecuzione scaligera

Prima di tutto la regia: Yannis Kokkos, un regista greco che alla Scala abbiamo già visto nel Götterdämmerung e successivamente nell’Ifigenia in Aulide. Così come lo avevo grandemente apprezzato nelle due messe in scena citate, anche in questa mi è piaciuto moltissimo.

La scenografia: l’immagine offerta è quella di una landa desolata, cupa, abitata da qualche albero spoglio (siamo in inverno) e da un coro di donne che per contrasto con l’ambiente oscuro, vestono abiti chiari. Lateralmente e sullo sfondo, quinte di color nero, illuminate lateralmente modificano le scene ricostruendo fra le altre cose lo studio dell’Arcivescovo, dove egli incontra le immagini dei tentatori, oppure lo spiazzo antistante o l’interno della cattedrale di Canterbury. Il personaggio principale, l’Arcivescovo domina la scena col suo declamato e con i suoi movimenti a tutto campo per esprimere la sofferenza interiore, la ricerca della strada da seguire, lo scontro con i tentatori e con i cavalieri, la sua determinazione.

L’intermezzo, come punto di svolta drammatico, viene rappresentato come una grande vetrata di chiesa con dipinte immagini sacre in stile medioevale e soprattutto la scena dell’assassinio al centro di un cerchio. Dietro la vetrata trasparente si intravede l‘Arcivescovo mentre fa la sua predica sul martirio.

Nel secondo atto, ritorna la scena delle quinte nere, ma questa volta sulle quinte sono adagiati frammenti rotti della grande vetrata, come se il martirio che vi è raffigurato si fosse lacerato per investire il mondo circostante.

Molto interessanti sono i movimenti scenici. Per esempio l’ingresso dei tentatori è tale da esprimerne l’ambiguità di personaggi reali o irreali: compaiono quasi materializzandosi richiamando l’attenzione di Thomas. I movimenti del coro, soprattutto quello delle donne di Canterbury, tendono a fondersi quasi a significare la natura unitaria della loro presenza (coro come personaggio). I movimenti dei cavalieri e il momento drammatico dell’omicidio si consuma sopra i gradini dell’altare, sottolineato da una musica che esplode come un grido di tragedia.

A una messa in scena di grande forza e drammaticità, corrisponde un’esecuzione musicale all’altezza della situazione. Renzetti dirige l‘orchestra in modo chiaro, con una dinamica che non copre mai le voci, e che fa risaltare in modo brillante i timbri. Anche il coro esprime in modo opportuno l’ansia di questa popolazione per la quale l’arrivo dell’Arcivescovo, lungi dall’essere un momento di conforto, diventa una fonte di preoccupazione e timore. Ma il perno dell’opera è stato senza dubbio Ferruccio Furlanetto nella parte dell’Arcivescovo. Presenza scenica autorevole, dizione molto corretta (ogni parola perfettamente comprensibile), voce potente, senso drammatico accentuato, sia nei momenti di riflessione, come nei momenti di difesa della sua chiesa: contro i cavalieri, ma anche contro i sacerdoti che lo vorrebbero salvare a scapito della libertà.

Gli applausi, alquanto tiepidi alla fine del primo atto, sono stati molto intensi e non privi di entusiasmo alla fine, e indirizzati soprattutto a Furlanetto e a Renzetti.

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